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Trivellazioni: il referendum e la posta in gioco

Trivellazioni: il referendum e la posta in gioco

Il referendum del 17 aprile è alle porte. Siamo chiamati a scegliere se abrogare la norma che permette di svolgere le attività di coltivazione degli idrocarburi, relative a concessioni già rilasciate in zone di mare, per la vita utile del giacimento. Ma qual è la vera posta in gioco? Riportiamo la riflessione di Chiara Tintori pubblicata sul sito www.azionecattolica.it.

Il referendum del 17 aprile è alle porte. Siamo chiamati a scegliere se abrogare la norma che permette di svolgere le attività di coltivazione degli idrocarburi, relative a concessioni già rilasciate in zone di mare, per la vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e salvaguardia ambientale (art. 6, c. 17 del Codice dell’ambiente, D.lgs. n. 152/2006 e successive modificazioni). Con parole meno tecniche ci viene chiesto se, quando scadranno le attuali concessioni, vogliamo che venga fermato lo sfruttamento dei giacimenti in attività nelle acque territoriali italiane anche se contengono ancora gas naturale o petrolio. Il quesito riguarda solo le trivellazioni già in atto entro le 12 miglia dalla costa (poco più di 22 km), non quelle in mare a una distanza superiore o quelle sulla terraferma. Il referendum coinvolge 21 giacimenti di petrolio e metano (equamente distribuiti tra Mare Adriatico, Ionio e Canale di Sicilia); di questi, tre di ENI e di Edison potrebbero anche essere maggiormente sfruttati: Guendalina e Gospo nell’Adriatico e Vega davanti a Ragusa.
Di che cosa si tratta e qual è la reale posta in gioco? La risposta non è agevole in un contesto mediatico che pare aver messo in secondo piano questo appuntamento democratico, un disinteresse che pesa sulla democraticità dell’intero processo, anche perché l’esito di questo referendum – come per tutti i referendum abrogativi – sarà valido solo se vota la maggioranza più uno degli aventi diritto. Per agevolare la partecipazione sarebbe stato auspicabile l’accorpamento di questa tornata referendaria con le prossime elezioni amministrative, e desta qualche perplessità la motivazione ufficiale fornita dal Governo, visto che nel question time del 3 febbraio scorso alla Camera il Ministro dell’Interno ha dichiarato che si tratta di «difficoltà tecniche non superabili in via amministrativa».
Vorremmo porre qui all’attenzione il conflitto di competenze tra Stato e Regioni emerso nell’iter che ha portato alla consultazione del 17 aprile; la necessità di un dibattito pubblico che dia ai cittadini le informazioni necessarie per partecipare; infine, entrando nel merito, il quesito sul futuro energetico del nostro Paese.

Un conflitto di competenze
Ci troviamo dinnanzi a un esempio di conflitto di competenze tra autonomie locali e Governo centrale. Il quesito referendario sottoposto ai cittadini è solo uno dei sei che erano stati proposti da dieci Consigli regionali contro il decreto-legge “Sblocca Italia” (DL n. 133/2014, convertito nella L. n. 164/2014) che, per raggiungere un maggiore sfruttamento dei giacimenti nazionali al fine di ridurre l’import di metano e petrolio, trasferiva una parte del potere decisionale dalle Regioni allo Stato. Da qui la richiesta da parte di Abruzzo (che si è poi ritirato dai promotori), Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna e Veneto di sottoporre la normativa a referendum; ma contemporaneamente il Governo Renzi, per evitare i referendum, è intervenuto con tre emendamenti alla Legge di stabilità 2016 (L. n. 208/2015), stabilendo il divieto di perforare entro le 12 miglia dalla costa e fermando le trivellazioni in corso non autorizzate definitivamente. L’intervento del Governo ha quindi provocato la decadenza di tutti i quesiti referendari, eccetto quello relativo alla durata delle trivellazioni già autorizzate.
Al di là delle intricate vicende legislative, il conflitto di competenze tra Stato e Regioni in materia energetica, già da tempo di non semplice soluzione, non è altro che un’ulteriore conferma della confusione creata dalla riforma del Titolo V della Costituzione del 2001 (cfr Riggio G., «Il cantiere della riforma costituzionale», in Aggiornamenti Sociali, 4 [2016] 282-293, di prossima uscita). Infatti, l’art. 117 Cost. stabilisce che lo Stato ha competenza esclusiva in materia «di tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», mentre «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia» rientrano tra le materie di legislazione concorrente tra lo Stato e le Regioni; a queste spetta la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata allo Stato. Se consideriamo, inoltre, che le fonti di energia possono essere annoverate tra gli interessi strategici nazionali, la diatriba tra il Governo nazionale e le autonomie locali è destinata a proseguire nei prossimi tempi, al di là dell’esito referendario.

Referendum e partecipazione
Il referendum è uno strumento di democrazia diretta di cui in passato si è anche abusato, specie in quei casi in cui l’esito delle consultazioni referendarie è stato mortificato nei suoi effetti. Questo aumenta il rischio di disaffezione, a maggior ragione in una fase storica del nostro Paese in cui come cittadini tendiamo a una crescente estraneità verso le istituzioni democratiche, conseguente alla convinzione che la nostra opinione sia sostanzialmente irrilevante e che il nostro voto – anche referendario – serva a poco.
Nonostante la tecnicità del quesito abbia poco appeal mediatico, l’auspicio è che nelle settimane che ci separano dal referendum si apra un dibattito pubblico serio e approfondito, che consenta a noi cittadini di scegliere consapevolmente come partecipare. Non sarà facile, perché a differenza della maggior parte dei precedenti referendum abrogativi i promotori non sono i cittadini, ma alcuni Consigli regionali che, in quanto pubbliche amministrazioni, non possono utilizzare mezzi e logo istituzionali per la campagna referendaria. Sarà quindi ancora più importante evitare banalizzazioni da una parte e dall’altra, perché votare “sì” non vuol dire cancellare l’energia fossile dal nostro Paese, così come votare “no” (o non andare a votare) non equivale a difendere le aziende petrolifere da eventuali chiusure né a evitare la perdita di posti di lavoro.
L’invito è di prepararsi al referendum con consapevolezza e responsabilità, perché è uno strumento di esercizio della nostra cittadinanza; per questo abbiamo bisogno di poter godere in modo completo e trasparente del diritto all’informazione, anche su queste tematiche, lontano da pressioni lobbistiche e derive ideologiche.

Verso quale futuro energetico
Il referendum ha una portata simbolica per la disputa sulle competenze tra il Ministero dello Sviluppo economico e le Regioni e per l’esiguo numero di giacimenti coinvolti, tuttavia consente di compiere alcune riflessioni più ampie e lasciare aperte domande di lungo periodo.
Dalla Strategia energetica nazionale, documento politico-programmatico del 2013, sappiamo che le risorse potenziali totali di idrocarburi in tutti i giacimenti italiani (in terra, acque litoranee e mare aperto) ammontano a 700 Mtep (milioni di tonnellate equivalenti di petrolio), delle quali solo 126 Mtep sono riserve «certe», mentre i restanti sono «probabili e possibili» (testo in www.sviluppoeconomico.gov.it, cfr pp. 111-112). Poiché l’attuale quota di produzione annua è pari a 12 Mtep, ciò equivale a un periodo di copertura certa di poco più di 10 anni. Considerando che questa previsione si riferisce a tutti i giacimenti nazionali, ma che solo 21 sono quelli oggetto del referendum, le cui concessioni potranno essere rinnovate per 5 o 10 anni, siamo dinnanzi a un’incidenza molto ristretta dell’esito referendario.
La nostra dipendenza dall’estero per i prodotti energetici è pesante, tuttavia oggi il prezzo degli idrocarburi è estremamente basso e favorevole per un Paese importatore; ma proprio l’attuale livello dei prezzi sta mettendo in difficoltà i produttori, che stanno riducendo fortemente gli investimenti destinati all’esplorazione e alla ricerca di nuovi giacimenti.
Inoltre, laddove i margini di guadagno si riducono, è facile “tagliare” sulla sicurezza. Il referendum non a caso è stato richiesto dalle Regioni direttamente coinvolte nelle esplorazioni per la ricerca di petrolio e gas naturale, che ritengono i possibili danni ambientali superiori alle entrate derivanti dall’estrazione degli idrocarburi. Una vittoria del “sì” allontanerebbe il rischio di incidenti rilevanti nei mari italiani, specie nell’Adriatico, un mare “chiuso” il cui ecosistema potrebbe subire effetti devastanti in termini di inquinamento delle acque superficiali e profonde, del suolo e sottosuolo.
Infine e soprattutto, prolungare a oltranza lo sfruttamento di alcuni giacimenti di idrocarburi offshore appare miope rispetto a una questione più ampia: siamo certi che sia ancora l’energia fossile la strada da percorrere per la sostenibilità energetica? L’accordo sul clima raggiunto alla COP 21 di Parigi prevede l’assunzione della transizione energetica, cioè la riconversione verso fonti di energia a basso contenuto di carbonio e il miglioramento dell’efficienza, come la via maestra per contrastare i cambiamenti climatici (cfr Tintori C., «Cambiamenti climatici: la partita inizia ora», in Aggiornamenti Sociali, 1 [2016] 13-16, e García J. I., «COP 21: il clima tra questioni economiche e contributi ecclesiali», ivi, 3 [2016] 198-207).
Ci troviamo dinnanzi a una schizofrenia della nostra politica, che non riesce a sintonizzare le strategie nazionali con gli impegni assunti in ambito internazionale?
Anche un referendum può essere l’occasione per chiederci verso quale futuro energetico ci stiamo incamminando.

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