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Lo Statuto dell’Ac compie 50 anni

Lo Statuto dell’Ac compie 50 anni

Gli uomini e le donne, i preti e i vescovi, ma soprattutto Papa Paolo VI che accompagnarono l’Associazione nella fase del rinnovamento nel ricordo di un testimone e protagonista, già allora impegnato in diocesi e in regione.

 

1° novembre 1969, esattamente 50 anni fa, entrava in vigore il Nuovo Statuto dell’Ac e con esso l’associazione assumeva una forma organizzativa ma, soprattutto, uno stile di vita apostolico, per molti aspetti, veramente nuovo.

Nella sua storia centenaria, l’Ac aveva cambiato altre volte il proprio statuto (dopo i fatti del ‘31 e le leggi fasciste; nel 1946 dopo la guerra e la liberazione), mai però in una forma così incisiva, tale da trasformare tutta la struttura su cui si era sviluppata nei primi cento anni: dai quattro
rami, un’unica associazione.

Si tratta dunque di una data davvero storica! È vero abbiamo da poco concluso il ricordo intenso ed esteso anche a livello diocesano dei primi 150 anni (1868-2018); abbiamo nelle scorse settimane celebrato, a Vicenza e col Papa, la nascita dell’Acr 50 anni fa, generata, del tutto nuova, proprio da quello Statuto; ma se vogliamo capire davvero quali furono le novità che produsse quel documento, non serve celebrarne la memoria, ma verificare se lo stiamo realizzando nella sua originalità.

Può sembrare improprio, forse enfatico, ma è l’esempio che mi viene sempre quando cerco di
spiegare la “rivoluzione” che, di fatto, produsse quello Statuto: per capire e vivere la Chiesa oggi, è necessario assolutamente ricordare e conoscere cos’era e com’era prima del Concilio!

Anche per l’Ac il Concilio è stato e continua ad essere lo spartiacque: l’inizio di una storia profondamente nuova, non in antitesi a quella dei primi 100 anni, (dei quali conserva il carisma che la identifica come Apostolato dei Laici), ma profondamente rinnovata nella forma, nello stile, nei metodi in conformità e coerenza al volto di Chiesa che il Concilio ci ha consegnato.

Il Concilio si chiude l’8 dicembre 1965, ma già nei primi mesi del 1964 (a meno di un anno dalla sua elezione) Paolo VI sceglie le figure strategiche per avviarne un rinnovamento profondo: mons. Costa, Assistente Generale e Vittorio Bachelet, Presidente, che nominerà anche Uditore al Concilio.

E, poco dopo la conclusione del Concilio, nei primi mesi del 1966 la Presidenza Generale avvierà una larga consultazione dei Vescovi e delle Associazioni Diocesane per cogliere le prime generali sollecitazioni. Per la verità il grande impianto formativo e organizzativo che si coglie nel primo triennio dopo il Concilio (1966/1968), guardando ai temi della stampa associativa e ai convegni di studio nazionali, è tutto concentrato, più che sull’associazione, a far conoscere e approfondirne i documenti, a partire dalle tre fondamentali Costituzioni: la Dei verbum, la Lumen gentium, la Gaudium et Spes.

L’impegno maggiore fin da subito non è verso la struttura da riformare e rinnovare, ma per orientare e animare tutta l’associazione verso quella nuova visione della Chiesa che riconosceva al laicato una dignità, una competenza e una responsabilità che, certo già appartenevano al Dna dell’Ac, ma che ora trovavano un fondamento teologico e una prospettiva impensabile fino a quel momento.

Ma non dimentichiamo che, dal punto di vista organizzativo, erano ancora completamente attivi i quattro rami (Giac, Gf, Unione Donne e Unione Uomini) e il coordinamento della Giunta Centrale
si sviluppava proprio a partire dall’autorevolezza di Bachelet e di Costa, ma non in tutte le associazioni diocesane si procedeva in modo condiviso e strategico. Così ci furono non solo fughe in avanti , ma anche, pur in misura più ridotta, alcune resistenze che preoccupavano sia la Presidenza
Nazionale, sia diversi vescovi e la Cei, che, proprio in quegli anni stava organizzandosi, assumendo in proprio gran parte dei servizi e uffici di pastorale (es. catechesi, lavoro, comunicazioni…), fino ad allora in carico al Centro Nazionale, compreso l’uso della bellissima sede centrale dell’Unione Donne che, dal 68 diventa la sede della Cei .

È impossibile qui non solo sintetizzare, ma anche far capire la vastità e la complessità dei cambiamenti che si prospettavano, in un tempo, non dimentichiamolo, che vedeva dalle Università e dalle Piazze (era il famoso 68!) occupate dai giovani, alzarsi forte, spesso con modalità esagerate, una domanda di libertà, di autonomia, di potere.

L’Ac non era certo estranea a questi fermenti e, molto schematicamente, si può dire che anche a livello nazionale e in molte realtà diocesane e regionali si confrontavano due tendenze, caratterizzate a loro volta da una molteplicità di orientamenti e di posizioni: l’una radicalmente innovativa (Giac, Gf, Fuci),decisa a cambiare il volto dell’Ac, in qualche modo a rifondarla; l’altra, più trasversale ai rami adulti, degli Uomini soprattutto, e di storici dirigenti e assistenti, di per se non ostile al rinnovamento, ma fortemente preoccupata di non affossare tutto l’impianto organizzativo,
centrale e periferico, che aveva potenzialità enormi, da modificare certamente, ma non da cancellare.

Uno spazio maggiore servirebbe per far memoria di esperienze e di persone fondamentali per questo straordinario percorso, del quale ho avuto il dono impagabile di esserne non solo testimone, ma, per diversi aspetti, direttamente partecipe.

Vorrei, qui, soprattutto, sottolineare quanto decisiva fu la guida sapiente di Bachelet, di Costa e dei dirigenti e assistenti dei rami che ne condividevano la linea e lo stile (tra gli Assistenti Dal Monte, Franceschi, Scabini e tra i laici Paolo De Sandre, Antonio Amore, Maria Leonardi, Sitia Sassudelli, Bruno Paparella …). Seppero orientare e sostenere la riflessione e la ricerca sui grandi temi conciliari per promuovere una formazione robusta, la passione e l’entusiasmo apostolico.

Questa, a mio parere, fu una scelta strategica che seppe orientare e creare i fondamenti di una ecclesiologia che portava, così, a formare e a condividere un pensiero comune su alcuni dei nodi più impegnativi della grande riforma: la scelta democratica, l’unificazione dei rami a livello giovanile e degli adulti, ma, soprattutto, la centralità religiosa e spirituale della missione.

Più che mai decisivo fu, infine, l’accompagnamento che Paolo VI, in molti incontri e udienze generali, dedicò al tema stesso del rinnovamento e della riforma associativa. Cito solo qualche passaggio dell’omelia che fece in occasione del Centenario dell’Ac (8 dicembre 1968): “Occorrerà certamente un opportuno aggiornamento delle vostre strutture organizzative, dovrà essere accordata una maggiore autonomia nell’esercizio delle responsabilità a un laicato oggi maturo e potrà così essere meglio qualificata la collaborazione con la gerarchia nelle funzioni proprie del laico.

L’Azione Cattolica ritornerà giovane superando, con l’evolversi dei tempi, le forme cristallizzate della sua organizzazione e delle sue attività, le quali mancassero della genialità e dell’efficacia che il carattere sperimentale proprio dell’apostolato reclama”.

Con questo intervento che, pur sfumato nei termini, indica con chiarezza i punti imprescindibili del necessario rinnovamento, il Papa segnò e sollecitò le linee su cui doveva essere scritto il Nuovo Statuto. Infatti, già prima dell’estate del 1969, venne inviato una bozza, quasi definitiva, a tutte le associazioni diocesane e divenne l’argomento di studio e di confronto durante le attività estive dei convegni e dei campi scuola.

Fu un’estate entusiasmante e indimenticabile: in giro per i campi scuola (spesso i primi fatti insieme Giac e Gf) a discutere e sognare l’azione cattolica che avevamo desiderato, alla luce del Concilio, e che ora si stava attuando.

Fernando Cerchiaro

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