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La verità come ricerca. Le sorprendenti vie del dialogo tra credenti e non credenti

Sorpresa, interesse ed entusiasmo ha suscitato la risposta di papa Francesco alle sollecitazioni di Eugenio Scalfari, apparsa sul quotidiano La Repubblica col titolo «Lettera a chi non crede» il 4 settembre scorso.

È come se il dialogo tra credenti e non-credenti – che ha avuto precedenti illustri nell’esperienza della ‘Cattedra dei non-credenti’ di C. M. Martini (conta 12 sessioni dal 1987 al 2002) e ha tuttora esecuzione magistrale nei ‘Cortili dei gentili’ promossi dal Pontificio Consiglio della Cultura (dal 2011 ad oggi ne sono stati realizzati sette) – stesse per imboccare nuovi promettenti vie.

Non è certo cosa nuova, un dialogo del genere. La sua pratica effettiva appartiene da sempre al cuore dell’esperienza di fede, tanto che ne portano traccia le stesse Scritture. Nuova non ne è nemmeno la messa a tema, solo che si considerino il Vaticano II e il pontificato di Paolo VI, che al dialogo della chiesa con la contemporaneità hanno impresso un’accelerazione inedita.

scalfari

Eppure c’è una novità, che pare annunciarsi. Riguarda non già la pratica o la messa a tema del dialogo, bensì la forma che entrambe stanno assumendo: diretta, immediata, informale, tutt’altro che accademica, vitale. Quest’ultima qualificazione è degna di riguardo. Da un lato condensa la convinzione di papa Francesco, che il dialogo non sia faccenda di esperti o specialisti, bensì di chi lo vive. Dall’altro rende ragione dell’autorevolezza, che gli viene riconosciuta. Perché il dialogare di papa Francesco suona persuasivo? Perché scaturisce dal nucleo vitale della sua persona, effondendosi con grazia e naturalezza estreme nei gesti, nelle parole, negli sguardi, nel modo complessivo di stare al mondo.

La cosa merita attenzione. Muovendo dalla novità del dialogo, spinge infatti lo sguardo sulla novità del pontificato tutto. Che non consiste tanto in un cambio di stile o di priorità. Né tantomeno in un mutamento dottrinale. Ma esattamente nell’opposto. Ossia nel fatto che nulla è cambiato. Perlomeno per quel che attiene la persona di papa Bergoglio. Assai verosimilmente la novità e il cambiamento decisivi risiedono dunque qui: il ruolo sembra non prevaricare sulla persona. Al punto che riappare in tutta la sua incantevole evidenza un dato essenziale: il ministero – anche quello più complesso e problematico, qual è quello petrino – può ridivenire luogo eminente di identificazione personale, più che di alterazione caricaturale. Ebbene, è necessario partire da qui, per apprezzare l’estrema libertà con cui papa Francesco porta avanti il dialogo ‘dentro e fuori la chiesa’, ricorrendo a variegate forme comunicative, saltando via procedure consuete, fuoriuscendo da schemi e protocolli collaudati.

Restano però domande radicali: cosa significa dialogare autenticamente? È possibile un dialogo sulla fede o non-fede? Quali implicanze ha il dialogo per la fede o non-fede? Per apprezzare la radicalità di simili domande, è necessario ampliare l’interrogazione.

Udienza generale di Papa Francesco

Circa la prima questione ci si potrebbe ad esempio chiedere: quando si dà dialogo autentico tra persone? Forse quando ci si arresta all’esposizione dei propri sentimenti e convincimenti, o alla narrazione vicendevole di sé? Oppure quando ci si lascia attraversare (dia-) dall’esigenza di una comprensione condivisa (logos)? È del tutto autentico un dialogo che predetermina il confine, oltre il quale è bene non spingersi, anziché accettare che tutto possa venir saggiato dal dialogare medesimo?

Circa la seconda questione, è da chiarire cosa significhi dialogare su fede e non-fede. Significa forse scambiarsi le proprie conoscenze o convinzioni o visioni del mondo? O aprire un contenzioso su certezze e dubbi, che abitano tanto il credente quanto il non-credente? O non significa forse tentare di far luce e presa comune su ciò che rispettivamente tiene ciascuno in vita, alimentando passione, accendendo desiderio e concedendo di superare prove e sofferenze altrimenti difficilmente sostenibili? Insomma: oggetto di dialogo è propriamente la fede (intesa come decisione religiosa di fondo) oppure lo sono solamente le conseguenze culturali di tale fede, come viene talora sostenuto ad esempio a proposito del dialogo interreligioso?

Le domande più pungenti si addensano ad ogni modo attorno all’ultima questione, che si lascia anche formulare come segue: può la fede o la non-fede essere modificata dal dialogo? Ovverosia: il dialogo cambia la fede? O semplicemente la sfiora, senza ‘alterarla’?

La strada imboccata da papa Francesco suggerisce a quanto pare che non si possono dare risposte teoriche o artefatte a una simile domanda. Non tanto per la complessità della questione; quanto piuttosto perché la verità del dialogo – la di lui possibilità, modalità, efficacia ed esito – è la verità di una relazione e non si lascia certo determinare prima della sua esecuzione. Solo alla prova di buoni fatti – alla prova cioè di un dialogo effettivamente praticato e di una relazione realmente costruita – il dialogo dà buona prova di sé.

Da questo punto di vista è cosa estremamente rischiosa, il dialogo. Poiché è comandato dall’imprevedibilità del risultato. Al punto che, non appena ci si rende conto di un dialogo felicemente riuscito, è già troppo tardi, poiché ci si ritrova irrimediabilmente trasformati. Eppure proprio in ciò, esso presenta la medesima struttura della fede. Anzi, è esso stesso un incredibile atto di fede nella forza della parola, di contro alla forza della violenza o dell’imposizione. La cui linfa vitale non è affatto la presunzione di possedere la verità, bensì l’arcana esperienza di esserne tenacemente affascinati, conquistati, posseduti.

Ci sia di sprone – nei nostri dialoghi con chi crede o con chi non-crede – ciò che accadde a quel gentile inquieto (un ateo in ricerca), che incontrò tre saggi nella foresta (un ebreo, un cristiano, un musulmano). Dopo averli interrogati, lasciandosi provocare dalle rispettive ragioni di fede, si ritrovò convertito. L’aspetto curioso della vicenda è che non venne svelato quale dei tre saggi sia stato più convincente né a quale Dio quel tale si sia convertito. Perché un simile silenzio? «Se il gentile avesse loro manifestato quale legge gli fosse sembrata vera, essi non avrebbero più avuto un così buon argomento di discussione, né una così buona occasione per ricercare la verità». La verità si dà solo come rischio e come ricerca. Altrimenti è idolatria.

don Alessio Dal Pozzolo

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